“Le Dolomiti campane”, “I Titani pietrificati”, “Il Guerriero di roccia”.
Se vi siete mai imbattuti in questi epiteti sappiate che si stava facendo riferimento ai Monti Alburni.
Un’area di origine carsica lunga circa quaranta chilometri e larga dodici, caratterizzata da più di dieci vette e che conta più di duemila cavità tra grotte, inghiottitoi e doline.
- Le vette e i comuni che ne fanno parte
- Tra Titani, Virgilio, Tertulliano e Antece
- La morfologia degli Alburni
- Siamo in Cilento ma non siamo in Cilento
- La viticoltura degli Alburni
- Visita Tenuta Macellaro
- Visita Tenuta Mainardi
- Visita Azienda Agricola Cinzia Maucione
- Visita Azienda Agricola Chiara Morra
Le vette e i comuni che ne fanno parte
Decidere di visitare gli Alburni vi consentirà di raggiungere una delle cime più alte della Campania, facendovi ritrovare a 1742 metri sulla sua vetta più alta, l’Alburno, detta anche Panormo (proprio per il panorama di cui si può godere), su quella della Nuda a 1704 o su Le Palomelle a 1687 e vi consentirà di visitare ben dodici borghi di rara bellezza (Aquara, Bellosguardo, Castelcivita, Controne, Corleto Monforte, Ottati, Petina, Postiglione, Roscigno, Sant’Angelo a Fasanella, Serre e Sicignano degli Alburni), molti dei quali conservano ancora tracce lucane, greche e romane.
Tra Titani, Virgilio, Tertulliano e Antece
Secondo la leggenda, gli Alburni sono i corpi dei Titani pietrificati da Poseidone e che sono lì dal tempo della Titanomachia, la guerra fra Titani e Dèi che vide il trionfo di Zeus.
Secondo le testimonianze scritte, invece, di Alburni ce ne parla già Virgilio: «Est lucos Silari circa ilicibusque virentem plurimus Alburnum»…è proprio questo un passo delle sue “Georgiche” (Libro III, 146) dove il poeta ci conduce «intorno ai boschi del Sele e tra i fitti querceti verdeggianti dell’Alburno» e, successivamente, nelle opere di Tertulliano troviamo traccia di un certo dio Alburno, adorato probabilmente dai Lucani proprio nell’area descritta da Virgilio.
Sono luoghi che custodiscono tracce risalenti addirittura all’Età del Bronzo, come attesta la famosa scultura di Antece. Ci troviamo nei pressi dell’area di Costa Palomba, lungo la strada che collega Sant’Angelo a Fasanella con Petina e proprio qui, intorno ai 1100 metri di altitudine, troviamo un pianoro, delimitato a nord da un massiccio roccioso e difeso da una cinta muraria sugli altri lati e al centro i resti di un altare. Proprio qui, nel costone calcareo che difende il pianoro, troviamo scolpita la figura di un guerriero che guarda ad ovest, che con la mano destra impugna una lancia con uno scudo alla base e con la sinistra impugna una spada. La tradizione popolare gli ha assegnato il nome di Antece che significa Antico o Immobile; ad oggi, si può datare il ritrovamento tra il IV e il V secolo a.C. (quando qui i Lucani la facevano da padroni, tranne che a Velia) e che rappresenta una sepolcro vuoto, una scultura che vuole ricordare un guerriero, morto in situazioni eroiche e sepolto altrove.
La morfologia degli Alburni
La storia di questi luoghi ce la racconta già il nome: Alburno, da Albus, che significa bianco, candido, proprio a richiamare il colore delle rocce calcaree che caratterizzano questo massiccio montuoso carsico dell’Appennino Lucano che guarda in Campania. La storia millenaria di questi luoghi ha visto l’azione erosiva di molti fiumi che hanno originato importanti valli: quella del Tanagro a nord-est, quella del Calore a sud-ovest, quella del Sele a nord-ovest e quella del Diano, ad est.
Le rocce degli Alburni, molto simili a quelle del Carso e delle Alpi Orientali, sono principalmente costituite da calcari e dolomie, elementi molto solubili in acqua e anidride carbonica. Questa caratteristica – unita all’opera delle piogge e ai corsi d’acqua superficiali che proprio per tali connotazioni geologiche vengono trasformati in sotterranei – ha creato l’habitat ideale per il carsismo e la conseguente formazione di doline e grotte, come quelle famose di Castelcivita e di Auletta-Pertosa.
Un altro elemento che ha fatto sì che si creasse questo fenomeno è che molto probabilmente i Monti Alburni si sono originati in seguito all’azione di due faglie, perpendicolari tra loro e che, muovendosi simultaneamente, hanno creato una condizione tale che a parità di precipitazioni, l’acqua infiltratasi è risultata maggiore.
Infine, è bene sapere che la presenza di cavità non è diffusa uniformemente sugli Alburni, ma è concentrata in alcuni punti, dove era più forte lo strato impermeabile; ciò ha fatto sì che le acque si concentrassero, formando veri e propri torrenti che, col tempo, hanno eroso principalmente le aree dove sono entrati in contatto il flysch (la famosa formazione rocciosa del Cilento, formata da arenaria, argilla e marna) e i sottostanti calcari. Per interdersi, se le precipitazioni avessero trovato dappertutto il nudo calcare, non avrebbero avuto modo di formare torrenti e, pertanto, non ci sarebbe stata la loro conseguente opera di erosione.
Siamo in Cilento, ma non siamo in Cilento
Quando si parla di Cilento si fa riferimento ad un’area molto vasta ed è normale, quindi, che all’interno di un territorio con lo stesso nome, si intreccino storie e territori molto diversi tra loro. Si passa dal Cilento della costa, caratterizzato dalla grecità, dal flysch e da un clima temperato, al Cilento interno dove basta guardarsi intorno per notare un’argilla diversa, architetture diverse e tracce del passaggio dei lucani.
E poi ci sono gli Alburni.
Sì. Proprio così.
Sentieri, mulattiere, fitti boschi, faggeti, castagneti, verdi pascoli a disposizione di cavalli e bovini, ma anche aree più aride e comuni arroccati a ben oltre i 500 metri s.l.m.
Visti dall’alto, i comuni che fanno parte di quest’area, formano una sorta di “catena” nella catena montuosa, oppure, se ne volessimo fornire una descrizione più poetica, rappresentano le perle che adornano la “corona” degli Alburni.
La viticoltura degli Alburni
Beh, se siete arrivati fin qui credo che vi risulti chiaro che prima di parlare dei vini, amo visitare i luoghi, ascoltare le storie, conoscere le persone e camminare proprio lì, su quei terreni che danno vita a ciò che beviamo.
La viticoltura si adatta ai climi, ai territori e alle storie vitivinicole che negli anni si sono succedute. Ed è così che se sulla costa del Cilento troviamo principalmente flysch, fiano ed aglianico e qui, sugli Alburni, troviamo argilla, calcare, moscato e aglianicone.
Questa è la storia di secoli di viticoltura, di famiglie intere dedite a quest’attività, di una cantina sociale purtroppo fallita e della percentuale di ettari vitati più alta della regione.
Ed ecco farsi capolino, dietro la più famosa DOC Cilento nata nel 1989, la DOC Castel San Lorenzo nata nel 1991, che porta il nome del comune dove si ha notizia dei primi vigneti impiantati nei fondi dei Principi Carafa della Bilancia, per donazione di Federico D’Aragona, per poi arrivare al 1800 con l’introduzione del Barbera, mentre gli altri vitigni come Malvasia locale, Moscatello Salernitano, Sanginella, Aglianico, Aglianicone e Fiano, erano già presenti da tempo.
Gli Alburni, le valli scoscese, la continua ventilazione e l’ampia esposizione alla luce solare, fanno di questi luoghi una piacevole scoperta, dove storia e tradizione si intersecano con le vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro Sud.
Io ci sono stato e ora vi parlo delle aziende che ho visitato:
Primo giorno
Tenuta Macellaro a Postiglione
Era da tempo che volevo venire da Ciro e mi è dispiaciuto molto non essere riuscito a farlo prima. Beh, che dire…se volessi descriverlo in breve direi sicuramente che di rado ho conosciuto qualcuno più caparbio e ostinato; non conosco il suo segno zodiacale, ma conosco molto bene la sua cura per la vigna e la sua volontà indomita di riportare in auge il famoso e dimenticato Aglianicone, non a caso è stato eletto presidente dell’Associazione “Terre dell’Aglianicone”.
Ci troviamo a Postiglione, uno dei primi comuni che si incontrano provenendo da Salerno e che definirei una sorta di porta d’accesso agli Alburni. Qui le altitudini sono ancora modeste, i vigneti si trovano a 200 metri di altezza e risentono ancora di un forte influsso del mare (tant’è che in lontananza è possibile vedere il litorale di Paestum). Sette ettari distribuiti all’incirca in due ettari e mezzo di fiano, uno di falanghina, uno e mezzo di aglianicone (biotipo Castel San Lorenzo), due di aglianico e una piccola parte di montepulciano.
Ciro, ormai, sono circa quindici anni che ha fatto rinascere un’antica azienda agricola familiare convertendola, pian piano, al regime biologico. Anche la cantina dove mi accoglie racconta questa storia: pietra su pietra, mura antiche e spesse, due ambienti completamente diversi: ben ristrutturata l’accogliente saletta, ancora a pietra viva l’interno, dove, però, ogni crepa trasuda la storia e i sacrifici del nonno prima e del padre poi.
Ed ecco che a un tratto arriva proprio il papà, con un vassoio pieno di fichi: siamo ancora nelle prime ore della giornata e i fichi si rivelano un valido alleato per una giusta dose di energia e come base prima di iniziare la degustazione.
Dopo essersi riposato un po’ e aver scambiato una chiacchiera insieme, il papà riprende il suo lavoro e rimette in moto il trattore, mentre io e Ciro iniziamo ad assaggiare i vini. Non solo il suo storico “Ripaudo”, ma anche “Rosadea”, un rosato di montepulciano e una sua nuova creatura, il “Fianoro”, nato dalla volontà di ottenere un bianco solo da uve fiano, a differenza del “Ripaudo” che, invece, è frutto di un sapiente blend tra fiano e falanghina e che riesce a coniugare in maniera davvero perfetta non solo le caratteristiche organolettiche dei due vitigni, ma regala anche un sorso ben equilibrato tra acidità e sapidità.
Il “Rosadea” pur avendo comunque un richiamo minerale, come tutti i vini di Ciro, spicca in freschezza, regalando sentori di rosa e un sorso piacevole e succoso che, unito a una gradazione alcolica più contenuta (12,5%), lo rende un ideale compagno per una bevuta spensierata.
Il “Fianoro” è l’evoluzione e, forse, a mio avviso, il futuro. Sì, perché è la scommessa di Ciro, che non solo ha voluto lavorare un bianco in purezza, ma ha voluto farlo anche in modo particolare, con una macerazione sulle bucce di circa quarantotto ore che regala quel lucente color “oro” a questo fiano fatto di struttura e sostanza. Si tratta davvero di una nuova chicca nata due anni fa e sono sicuro che il tempo e l’esperienza di Ciro faranno sì che diventi il vino aziendale.
La piacevole chiacchierata con Ciro prosegue tra i filari dei vigneti colpiti dalla peronospora e dalle sue parole colgo il dispiacere misto a sconforto e come lui, la maggior parte dei produttori quest’anno ha dovuto fare i conti con le conseguenze di un’annata davvero disastrosa. Che si fa? Alza le spalle, si rimbocca le maniche e rivolgendosi al padre, che nel frattempo ci aveva raggiunto in vigna, gli dice che si farà quel che si può.
Una parte di uva bianca è salva e quest’anno si farà solo Ripaudo.
È “capatosta”…ve l’avevo detto… ;
Tenuta Mainardi ad Aquara
La giornata procede; il sole mi accompagna e la tappa successiva mi vede giungere ad Aquara. Devo dire che anche qui era da tempo che avevo promesso di venire e quando poi ci vieni, comprendi di quanto sia bello stare qui.
La prima cosa che mi fa riflettere è come sia possibile chiamare Aquara (proprio così, senza la “c”) un comune che è in cima alla classifica per ettari vitati in provincia di Salerno. Ebbene sì, il suo nome deriva proprio dall’abbondanza delle acque, visibile anche sullo stemma comunale, ma su 3138 ettari totali in provincia di Salerno, 212 stanno qui, su un totale di 700 ettari del territorio degli Alburni. Che ne dite? Non basta questo dato a far cambiare il suo nome in “Vinara”?
Giungo dai gemelli Marco e Luca Serra, che insieme Giuseppe, un terzo fratello, portano avanti non solo l’azienda vitivinicola, ma anche un agriturismo genuino, grazie ai manicaretti preparati da mamma Rocchina, docente in pensione e cuoca da sempre. Mi fanno accomodare e vedo una tavola apparecchiata per tre. Giuro che non era previsto, ma l’accoglienza di questa famiglia mi lascia spiazzato: si avvicinava l’ora di pranzo e hanno pensato di organizzare prima la degustazione desinando insieme, per poi spostarci nei vigneti. Non posso dire di non essere felice, specialmente quando arrivo in posti dove tutto mi trasferisce il calore della famiglia.
Ci sediamo e tra una chiacchiera sull’azienda, sulla storia del territorio e sui piatti, scopro che Nonno Giuseppe già nel 1955 aveva dato inizio all’azienda, che è stata poi proseguita da papà Domenico, conferendole un taglio maggiormente viticolo, per poi arrivare alla loro terza generazione, che dal 2006 conduce i tre ettari aziendali, suddivisi tra moscato, fiano, merlot, aglianico e aglianicone. Onore a loro per aver voluto investire in questo vitigno, in tre fasi: nel 2016, nel 2020 e nel 2023, arrivando a due ettari totali ed espiantando altri vitigni, con la volontà, col tempo, di produrre i rossi principalmente da questo vitigno autoctono, accantonato troppo presto da un miope mercato.
Il pranzo inizia e assaggiamo prima l’ “Estro”, il loro fiano che si rivela particolarmente piacevole, gaio, con una moderata freschezza e una caratterizzante mineralità, per poi proseguire con il “Fratis”, il rosso ottenuto da un blend di Aglianico, Barbera e una piccola presenza di Merlot, da un appezzamento impiantato da nonno Giuseppe nel 1955. Il sorso è pieno, ma resta morbido, piacevolmente elegante e genuino. I fratelli Serra fanno davvero di tutto per salvaguardare la biodiversità che li circonda, anche perché, come amano ripetere “è casa loro” e quindi si va di sovescio, di trinciature, di letame e di preparati naturali per difendere se stessi, le viti e…le api!
Mentre gusto questo piacevole rosso, arriva una sorpresa: ” ‘a pizza roce”, il famoso “dolce” che qui oltre alla “r” conserva anche la tradizione di una torta che ha segnato tutti i momenti della famiglie del Cilento: matrimoni in primis, ma anche le feste che profumavano di famiglia e dignità!
Come se non bastasse le soprese passano a due, con il loro “Stizzià”, il Castel San Lorenzo DOP Lambiccato 2016, il risultato dello “stizziare”, dello “stillare”, del “gocciolare”, del trasformare il moscato in quel vino dolce che, nonostante l’annata ormai lontana conserva sorso e piacevolezza, senza risultare stucchevole. Purtroppo, ora non lo producono più. Ho assaggiato una cosa rara e “raramente” sono stato più felice!
La giornata procede tra i vigneti, con Marco che dopo aver studiato enologia a Torino, è tornato qui, a casa sua e me la mostra con piacere. Vado in macchina con loro e…vedete…questi piccoli gesti che possono sembrarvi semplici, non lo sono affatto per chi svolge la mia attività: non sei più solo un giornalista, ma per qualche ora diventi contadino e vignaiolo, ti immedesimi nella vita di chi racconti ed è proprio questo il momento più bello.
Saliamo ancora e stavolta, l’argilla si mescola visibilmente al calcare. Cerco nel terreno come un cane da tartufo e ringrazio la loro disponibilità perché mi portano a visitare vari vigneti, pur di aiutarmi a comprendere meglio le differenze di questi suoli con il resto del Cilento.
Le ore passano, ma non il piacere di parlare con loro, perché oltre ad essere molto simpatici e socievoli, ho apprezzato principalmente una cosa:mi hanno parlato per tutto il tempo della biodiversità da tutelare e non della chimica da utilizzare.
Li saluto e ci diamo appuntamento alla prossima degustazione!
Azienda Agricola Cinzia Maucione ad Aquara
Era da tempo che ci volevo venire è stato già detto? Eh sì, sembra fatto apposta, ma avevo già bevuto i vini di Cinzia, prima di conoscerla, e l’avevo pure incontrata all’Aperitivo Sociale organizzato da Gabriela Bellissimo sulle donne che valorizzano il Cilento.
Sia dopo aver bevuto il suo vino, sia dopo averla incontrata, le avevo promesso che sarei passato in azienda e poi…e poi il maledetto tempo che sembra sempre sfuggirci di mano.
L’importante ora è essere qui: appena varco la soglia di casa mi sembra di entrare nel paese dei balocchi: alzo gli occhi e vedo pancette tese, salsicce, soppressate, capicolli, insomma, la cuccagna!
Mi accoglie Franco, il marito, e mi porta con lui vicino all’affettatrice, credete possa esistere un’accoglienza migliore di questa? Un uomo travolgente, se dici di no per lui è sì, se dici di non volerne più ti riempie di nuovo il piatto e anche il calice; e, allora, lo guardi con l’aria di chi si trova di fronte una persona dalla rara, rarissima qualità: farti sentire subito a casa. Cinzia e Franco la definirei la coppia del lavoro e del sorriso, mentre Franco mi accompagna nei vigneti, Cinzia resta in cantina a imbottigliare, salvo poi scambiarsi di ruolo, con Franco che si allontana, mentre Cinzia, al mio ritorno dai vigneti, mi conduce a degustare.
Sono intercambiabili e credo anche inseparabili!
Vederli insieme è un piacere, perché sono felici e lo trasmettono, complice sicuramente anche la scelta delle figlie di voler restare in azienda, ad Aquara, e si stanno specializzando nel commerciale, al fine di posizionare sempre meglio i prodotti sul mercato.
I vigneti sono spettacolari, aperti a tutta valle, scoscesi, argillosi, “faticati”, ma hanno un’apertura di cielo davvero straordinaria. E poi l’aria, credetemi, l’aria è davvero invidiabile; se respiri più forte senti il naso “friccicare” e siamo quasi al tramonto, dove altrove tutte le “polveri sottili” raggiungono il massimo livello.
Venite a parlarmi di qualità della vita! Venite! Venite a dirmi che qui non c’è futuro e, invece, le figlie di Cinzia e Franco stanno dimostrando che il futuro c’è e sta qui, nel loro paese, dove non troveranno il centro commerciale a due passi, ma dove potranno vivere una vita “all’aria aperta” e non “all’aria sporca”.
Inizio a degustare il “Chjanu Majuri”, non solo perché è stato il vino che ho bevuto prima che li conoscessi, ma perché nel nome del vino è contenuto anche il mio e già per questo mi sta simpatico!
Un blend di Barbera, Sangiovese e Merlot, un vino dal sorso pieno e genuino, opulento e fruttato, così come la maggior parte dei loro vini degustati. Non vengono aggiunti solfiti, il vigneto viene condotto in maniera davvero certosina e naturale, con il risultato nel calice di un impatto fortemente territoriale e piacevolmente vinoso.
Caratteristiche che si ritrovano sia nel “Perato”, da uve Barbera in purezza, sia nel “Cierni Vjento”, da uve Aglianico. Assaggiando quest’ultimo ho potuto avvertire una struttura ancora maggiore, con tannini importanti, ma con una buona spalla acida che si sforza di bilanciare i 16 gradi di alcol. Dico sedici!
“Franco, ma non credi che questi siano vini che fanno fatica a stare sul mercato?”
“Sono i vini miei. Così me li dà la terra e io non li cambio!”
E che gli vuoi rispondere? A me viene solo di abbracciarlo, ma mi limito a una pacca sulla spalla e ad una bella risata.
Avremmo finito, ma con Franco e Cinzia mica te ne puoi andare così? “E il moscato non lo assaggi?”
Eh, giustamente, non abbiamo bevuto quasi nulla e allora è giusto assaggiare e con piacere noto che il loro “Filtrato dolce di Aquara” è notevolmente migliorato rispetto a una volta che mi era capitato di assaggiarlo mesi prima. Lo dico e Cinzia mi conferma che avevano apportato delle modifiche per migliorarne acidità e sorso e questa cosa mi conforta molto, perché significa che ci si può ancora confrontare.
La sera è vicina, il tramonto da qui è davvero spettacolare, le luci e i colori non mi sembrano reali e questo squarcio di cielo l’ho voluto immortalare, affinché mi crediate quando vi dico che… “è n’atu munno”. Ne ho conferma anche prima di andar via, incontrando la figlia che si è appena sposata e ha partorito, la quale mi racconta che il nonno, saputa la notizia, si è avviato per tempo e ha preparato, con le proprie mani, decine e decine di cesti di paglia come bomboniera.
Cinzia e Franco, poi, hanno provveduto a riempirli con i loro buoni prodotti della terra.
Cos’è questo? Per me, lo ripeto, qualora non fosse chiaro: “è n’atu munno!!!”
Secondo giorno
Azienda Agricola Chiara Morra a Castel San Lorenzo
Qui non ci dovevo venire, vi sembrerà strano, ma è proprio così. L’azienda mi è stata segnalata da Ciro Macellaro e mai segnalazione fu più adatta. Perché? Perché ci sono momenti nella vita in cui le cose devono accadere e io ho avuto modo di conoscere una signora di settant’anni, umile e minuta, che con tanta fatica e altrettanta dignità porta avanti la sua azienda.
Siamo a Castel San Lorenzo e forse ai più giovani questo nome risulterà nuovo, eppure, fino a qualche decennio fa questa terra trasudava vino. Vi basta sapere che l’uso del termine Lambiccato è riservato solo ed esclusivamente alla DOC Castel San Lorenzo? Ecco. Questa ve la dice lunga su quanto questa zona di produzione fosse tenuta in considerazione. E poi che è successo? Semplicemente che una delle più grandi cantine sociali, la “Val Calore”, nata addirittura nel 1960, d’un tratto chiude i suoi battenti e molti vignaioli contadini si ritrovano le uve invendute e svalutate.
Chiara Morra non ci sta e nel 2015 decide di etichettare, contro lo scetticismo di molti, e anno dopo anno vinifica, vende e colleziona premi. La fatica c’è, perché in vigna ci sta lei, qualche bracciante del luogo e, quando può, suo figlio. Mi accoglie proprio davanti a un’immensa area verde, che fino a qualche anno fa era teatro della più grande festa del lambiccato, organizzata da lei agli inizi di agosto. Comincia a raccontarmi queste cose, io la vedo piccola e non mi capacito da dove prenda tutte queste forze per andare avanti, ora che la viticoltura lì è cambiata e che di certo scoraggia i piccoli.
Chiara conduce cinque ettari, suddivisi tra un ettaro totale di sangiovese, merlot e cabernet, un ettaro di moscato bianco, mezzo ettaro di barbera e la restante parte tra aglianico, aglianicone, trebbiano e malvasia. Portare avanti tutto questo non è facile, nella vita è una lotta e in vigna una lotta integrata che le consente di portare nel calice vini dalla forte connotazione territoriale.
Piacevoli e armonici i suoi “Rachía”, che sarebbe l’anagramma di Chiara, sia il bianco ottenuto da uve Trebbiano e Malvasia, sia il rosso da barbera e Sangiovese. Vini immediati, di pronta beva, dal grado alcolico contenuto e dall’abbinamento leggiadro. Altra storia l’Aglianicone (che ho avuto modo di degustare in un momento successivo alla visita), dove le viti impiantante nel 2015 stanno già dando buoni frutti e belle soddisfazioni. L’asticella sale ancora con il suo Lambiccato, che tratta come un figlio e ne parla come una creatura che abbisogna di cure e attenzioni, ma che la ricambia con un moscato che qui si esprime al meglio e che i tanti anni di esperienza fanno sì che si riesca a raggiungere davvero un risultato importante.
Iniziamo a salutarci, ma si ricorda di non avermi fatto assaggiare il passito. Le dico che ritornerò volentieri, ma lei insiste e, credetemi, menomale che l’ha fatto: difficilmente credo di aver assaggiato un passito così buono. Senza dubbio il miglior passito assaggiato negli ultimi anni (anche in relazione al rapporto qualità-prezzo, parliamo, infatti, di un prodotto che esce intorno ai 15 euro): colore brillante, sorso lungo, pieno, fresco, nonostante sia una 2018. Dico sempre 2018. Davvero assurdo! Andatela a trovare e compratene una cassa per poi dimenticarla; apritene una ogni anno, perché di vita ne ha ancora parecchia avanti.
Mi saluta, ma prima mi porta a vedere il Calore.
Sì, perché davanti ai suoi vigneti scorre il fiume Calore, pochi passi e vi ritroverete sulla sua riva (se non è in secca). Immaginate questa scena: davanti a voi il fiume, alle vostre spalle i vigneti, sulle vostre teste l’ombra dei platani e dei tigli, in una mano un calice di passito e l’altra mano che stringe quella della vostra metà.
Io ve l’ho detto: “è n’atu munno!”
So che non è commerciale, che ovviamente il nome “Cilento” ha più appeal e che è giustissimo investire su quella, ma lasciate che un giovane adulto, vecchio dentro, che vorrebbe vedere valorizzato ogni angolo di questa regione, esprima un desiderio: una denominazione “Alburni”, affinché l’argilla, il calcare e le “fatiche” di chi ci ha preceduto restino lì per sempre, come le stalattiti delle grotte di Castelcivita, o, molto più semplicemente, come le mani rugose di chi ha zappato questa terra meglio dei “titani”.
Yuri Buono
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