Gli Alburni: tra argilla, calcare, aglianicone, lambiccato e fatica!

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“Le Dolomiti campane”, “I Titani pietrificati”, “Il Guerriero di roccia”.
Se vi siete mai imbattuti in questi epiteti sappiate che si stava facendo riferimento ai Monti Alburni.
Un’area di origine carsica lunga circa quaranta chilometri e larga dodici, caratterizzata da più di dieci vette e che conta più di duemila cavità tra grotte, inghiottitoi e doline.

Le vette e i comuni che ne fanno parte

Decidere di visitare gli Alburni vi consentirà di raggiungere una delle cime più alte della Campania, facendovi ritrovare a 1742 metri sulla sua vetta più alta, l’Alburno, detta anche Panormo (proprio per il panorama di cui si può godere), su quella della Nuda a 1704 o su Le Palomelle a 1687 e vi consentirà di visitare ben dodici borghi di rara bellezza (Aquara, Bellosguardo, Castelcivita, Controne, Corleto Monforte, Ottati, Petina, Postiglione, Roscigno, Sant’An­gelo a Fasanella, Serre e Sicignano degli Alburni), molti dei quali conservano ancora tracce lucane, greche e romane.

Tra Titani, Virgilio, Tertulliano e Antece

Secondo la leggenda, gli Alburni sono i corpi dei Titani pietrificati da Poseidone e che sono lì dal tempo della Titanomachia, la guerra fra Titani e Dèi che vide il trionfo di Zeus.
Secondo le testimonianze scritte, invece, di Alburni ce ne parla già Virgilio: «Est lucos Silari circa ilicibusque virentem plurimus Alburnum»…è proprio questo un passo delle sue “Georgiche” (Libro III, 146) dove il poeta ci conduce «intorno ai boschi del Sele e tra i fitti querceti verdeggianti dell’Alburno» e, successivamente, nelle opere di Tertulliano troviamo traccia di un certo dio Alburno, adorato probabilmente dai Lucani proprio nell’area descritta da Virgilio.
Sono luoghi che custodiscono tracce risalenti addirittura all’Età del Bronzo, come attesta la famosa scultura di Antece. Ci troviamo nei pressi dell’area di Costa Palomba, lungo la strada che collega Sant’Angelo a Fasanella con Petina e proprio qui, intorno ai 1100 metri di altitudine, troviamo un pianoro, delimitato a nord da un massiccio roccioso e difeso da una cinta muraria sugli altri lati e al centro i resti di un altare. Proprio qui, nel costone calcareo che difende il pianoro, troviamo scolpita la figura di un guerriero che guarda ad ovest, che con la mano destra impugna una lancia con uno scudo alla base e con la sinistra impugna una spada. La tradizione popolare gli ha assegnato il nome di Antece che significa Antico o Immobile; ad oggi, si può datare il ritrovamento tra il IV e il V secolo a.C. (quando qui i Lucani la facevano da padroni, tranne che a Velia) e che rappresenta una sepolcro vuoto, una scultura che vuole ricordare un guerriero, morto in situazioni eroiche e sepolto altrove.

La morfologia degli Alburni

La storia di questi luoghi ce la racconta già il nome: Alburno, da Albus, che significa bianco, candido, proprio a richiamare il colore delle rocce calcaree che caratterizzano questo massiccio montuoso carsico dell’Appennino Lucano che guarda in Campania. La storia millenaria di questi luoghi ha visto l’azione erosiva di molti fiumi che hanno originato importanti valli: quella del Tanagro a nord-est, quella del Calore a sud-ovest, quella del Sele a nord-ovest e quella del Diano, ad est.
Le rocce degli Alburni, molto simili a quelle del Carso e delle Alpi Orientali, sono principalmente costituite da calcari e dolomie, elementi molto solubili in acqua e anidride carbonica. Questa caratteristica – unita all’opera delle piogge e ai corsi d’acqua superficiali che proprio per tali connotazioni geologiche vengono trasformati in sotterranei – ha creato l’habitat ideale per il carsismo e la conseguente formazione di doline e grotte, come quelle famose di Castelcivita e di Auletta-Pertosa.

Un altro elemento che ha fatto sì che si creasse questo fenomeno è che molto probabilmente i Monti Alburni si sono originati in seguito all’azione di due faglie, perpendicolari tra loro e che, muovendosi simultaneamente, hanno creato una condizione tale che a parità di precipitazioni, l’acqua infiltratasi è risultata maggiore.
Infine, è bene sapere che la presenza di cavità non è diffusa uniformemente sugli Alburni, ma è concentrata in alcuni punti, dove era più forte lo strato impermeabile; ciò ha fatto sì che le acque si concentrassero, formando veri e propri torrenti che, col tempo, hanno eroso principalmente le aree dove sono entrati in contatto il flysch (la famosa formazione rocciosa del Cilento, formata da arenaria, argilla e marna) e i sottostanti calcari. Per interdersi, se le precipitazioni avessero trovato dappertutto il nudo calcare, non avrebbero avuto modo di formare torrenti e, pertanto, non ci sarebbe stata la loro conseguente opera di erosione.

Siamo in Cilento, ma non siamo in Cilento

Quando si parla di Cilento si fa riferimento ad un’area molto vasta ed è normale, quindi, che all’interno di un territorio con lo stesso nome, si intreccino storie e territori molto diversi tra loro. Si passa dal Cilento della costa, caratterizzato dalla grecità, dal flysch e da un clima temperato, al Cilento interno dove basta guardarsi intorno per notare un’argilla diversa, architetture diverse e tracce del passaggio dei lucani.
E poi ci sono gli Alburni.
Sì. Proprio così.
Sentieri, mulattiere, fitti boschi, faggeti, castagneti, verdi pascoli a disposizione di cavalli e bovini, ma anche aree più aride e comuni arroccati a ben oltre i 500 metri s.l.m.
Visti dall’alto, i comuni che fanno parte di quest’area, formano una sorta di “catena” nella catena montuosa, oppure, se ne volessimo fornire una descrizione più poetica, rappresentano le perle che adornano la “corona” degli Alburni.

La viticoltura degli Alburni

Beh, se siete arrivati fin qui credo che vi risulti chiaro che prima di parlare dei vini, amo visitare i luoghi, ascoltare le storie, conoscere le persone e camminare proprio lì, su quei terreni che danno vita a ciò che beviamo.
La viticoltura si adatta ai climi, ai territori e alle storie vitivinicole che negli anni si sono succedute. Ed è così che se sulla costa del Cilento troviamo principalmente flysch, fiano ed aglianico e qui, sugli Alburni, troviamo argilla, calcare, moscato e aglianicone.
Questa è la storia di secoli di viticoltura, di famiglie intere dedite a quest’attività, di una cantina sociale purtroppo fallita e della percentuale di ettari vitati più alta della regione.
Ed ecco farsi capolino, dietro la più famosa DOC Cilento nata nel 1989, la DOC Castel San Lorenzo nata nel 1991, che porta il nome del comune dove si ha notizia dei primi vigneti impiantati nei fondi dei Principi Carafa della Bilancia, per donazione di Federico D’Aragona, per poi arrivare al 1800 con l’introduzione del Barbera, mentre gli altri vitigni come Malvasia locale, Moscatello Salernitano, Sanginella, Aglianico, Aglianicone e Fiano, erano già presenti da tempo.
Gli Alburni, le valli scoscese, la continua ventilazione e l’ampia esposizione alla luce solare, fanno di questi luoghi una piacevole scoperta, dove storia e tradizione si intersecano con le vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro Sud.
Io ci sono stato e ora vi parlo delle aziende che ho visitato:

Primo giorno

Tenuta Macellaro a Postiglione

Era da tempo che volevo venire da Ciro e mi è dispiaciuto molto non essere riuscito a farlo prima. Beh, che dire…se volessi descriverlo in breve direi sicuramente che di rado ho conosciuto qualcuno più caparbio e ostinato; non conosco il suo segno zodiacale, ma conosco molto bene la sua cura per la vigna e la sua volontà indomita di riportare in auge il famoso e dimenticato Aglianicone, non a caso è stato eletto presidente dell’Associazione “Terre dell’Aglianicone”.
Ci troviamo a Postiglione, uno dei primi comuni che si incontrano provenendo da Salerno e che definirei una sorta di porta d’accesso agli Alburni. Qui le altitudini sono ancora modeste, i vigneti si trovano a 200 metri di altezza e risentono ancora di un forte influsso del mare (tant’è che in lontananza è possibile vedere il litorale di Paestum). Sette ettari distribuiti all’incirca in due ettari e mezzo di fiano, uno di falanghina, uno e mezzo di aglianicone (biotipo Castel San Lorenzo), due di aglianico e una piccola parte di montepulciano.
Ciro, ormai, sono circa quindici anni che ha fatto rinascere un’antica azienda agricola familiare convertendola, pian piano, al regime biologico. Anche la cantina dove mi accoglie racconta questa storia: pietra su pietra, mura antiche e spesse, due ambienti completamente diversi: ben ristrutturata l’accogliente saletta, ancora a pietra viva l’interno, dove, però, ogni crepa trasuda la storia e i sacrifici del nonno prima e del padre poi.
Ed ecco che a un tratto arriva proprio il papà, con un vassoio pieno di fichi: siamo ancora nelle prime ore della giornata e i fichi si rivelano un valido alleato per una giusta dose di energia e come base prima di iniziare la degustazione.

Dopo essersi riposato un po’ e aver scambiato una chiacchiera insieme, il papà riprende il suo lavoro e rimette in moto il trattore, mentre io e Ciro iniziamo ad assaggiare i vini. Non solo il suo storico “Ripaudo”, ma anche “Rosadea”, un rosato di montepulciano e una sua nuova creatura, il “Fianoro”, nato dalla volontà di ottenere un bianco solo da uve fiano, a differenza del “Ripaudo” che, invece, è frutto di un sapiente blend tra fiano e falanghina e che riesce a coniugare in maniera davvero perfetta non solo le caratteristiche organolettiche dei due vitigni, ma regala anche un sorso ben equilibrato tra acidità e sapidità.
Il “Rosadea” pur avendo comunque un richiamo minerale, come tutti i vini di Ciro, spicca in freschezza, regalando sentori di rosa e un sorso piacevole e succoso che, unito a una gradazione alcolica più contenuta (12,5%), lo rende un ideale compagno per una bevuta spensierata.
Il “Fianoro” è l’evoluzione e, forse, a mio avviso, il futuro. Sì, perché è la scommessa di Ciro, che non solo ha voluto lavorare un bianco in purezza, ma ha voluto farlo anche in modo particolare, con una macerazione sulle bucce di circa quarantotto ore che regala quel lucente color “oro” a questo fiano fatto di struttura e sostanza. Si tratta davvero di una nuova chicca nata due anni fa e sono sicuro che il tempo e l’esperienza di Ciro faranno sì che diventi il vino aziendale.

La piacevole chiacchierata con Ciro prosegue tra i filari dei vigneti colpiti dalla peronospora e dalle sue parole colgo il dispiacere misto a sconforto e come lui, la maggior parte dei produttori quest’anno ha dovuto fare i conti con le conseguenze di un’annata davvero disastrosa. Che si fa? Alza le spalle, si rimbocca le maniche e rivolgendosi al padre, che nel frattempo ci aveva raggiunto in vigna, gli dice che si farà quel che si può.
Una parte di uva bianca è salva e quest’anno si farà solo Ripaudo.
È “capatosta”…ve l’avevo detto… ;

Tenuta Mainardi ad Aquara

La giornata procede; il sole mi accompagna e la tappa successiva mi vede giungere ad Aquara. Devo dire che anche qui era da tempo che avevo promesso di venire e quando poi ci vieni, comprendi di quanto sia bello stare qui.
La prima cosa che mi fa riflettere è come sia possibile chiamare Aquara (proprio così, senza la “c”) un comune che è in cima alla classifica per ettari vitati in provincia di Salerno. Ebbene sì, il suo nome deriva proprio dall’abbondanza delle acque, visibile anche sullo stemma comunale, ma su 3138 ettari totali in provincia di Salerno, 212 stanno qui, su un totale di 700 ettari del territorio degli Alburni. Che ne dite? Non basta questo dato a far cambiare il suo nome in “Vinara”?
Giungo dai gemelli Marco e Luca Serra, che insieme Giuseppe, un terzo fratello, portano avanti non solo l’azienda vitivinicola, ma anche un agriturismo genuino, grazie ai manicaretti preparati da mamma Rocchina, docente in pensione e cuoca da sempre. Mi fanno accomodare e vedo una tavola apparecchiata per tre. Giuro che non era previsto, ma l’accoglienza di questa famiglia mi lascia spiazzato: si avvicinava l’ora di pranzo e hanno pensato di organizzare prima la degustazione desinando insieme, per poi spostarci nei vigneti. Non posso dire di non essere felice, specialmente quando arrivo in posti dove tutto mi trasferisce il calore della famiglia.
Ci sediamo e tra una chiacchiera sull’azienda, sulla storia del territorio e sui piatti, scopro che Nonno Giuseppe già nel 1955 aveva dato inizio all’azienda, che è stata poi proseguita da papà Domenico, conferendole un taglio maggiormente viticolo, per poi arrivare alla loro terza generazione, che dal 2006 conduce i tre ettari aziendali, suddivisi tra moscato, fiano, merlot, aglianico e aglianicone. Onore a loro per aver voluto investire in questo vitigno, in tre fasi: nel 2016, nel 2020 e nel 2023, arrivando a due ettari totali ed espiantando altri vitigni, con la volontà, col tempo, di produrre i rossi principalmente da questo vitigno autoctono, accantonato troppo presto da un miope mercato.
Il pranzo inizia e assaggiamo prima l’ “Estro”, il loro fiano che si rivela particolarmente piacevole, gaio, con una moderata freschezza e una caratterizzante mineralità, per poi proseguire con il “Fratis”, il rosso ottenuto da un blend di Aglianico, Barbera e una piccola presenza di Merlot, da un appezzamento impiantato da nonno Giuseppe nel 1955. Il sorso è pieno, ma resta morbido, piacevolmente elegante e genuino. I fratelli Serra fanno davvero di tutto per salvaguardare la biodiversità che li circonda, anche perché, come amano ripetere “è casa loro” e quindi si va di sovescio, di trinciature, di letame e di preparati naturali per difendere se stessi, le viti e…le api!
Mentre gusto questo piacevole rosso, arriva una sorpresa: ” ‘a pizza roce”, il famoso “dolce” che qui oltre alla “r” conserva anche la tradizione di una torta che ha segnato tutti i momenti della famiglie del Cilento: matrimoni in primis, ma anche le feste che profumavano di famiglia e dignità!
Come se non bastasse le soprese passano a due, con il loro “Stizzià”, il Castel San Lorenzo DOP Lambiccato 2016, il risultato dello “stizziare”, dello “stillare”, del “gocciolare”, del trasformare il moscato in quel vino dolce che, nonostante l’annata ormai lontana conserva sorso e piacevolezza, senza risultare stucchevole. Purtroppo, ora non lo producono più. Ho assaggiato una cosa rara e “raramente” sono stato più felice!

La giornata procede tra i vigneti, con Marco che dopo aver studiato enologia a Torino, è tornato qui, a casa sua e me la mostra con piacere. Vado in macchina con loro e…vedete…questi piccoli gesti che possono sembrarvi semplici, non lo sono affatto per chi svolge la mia attività: non sei più solo un giornalista, ma per qualche ora diventi contadino e vignaiolo, ti immedesimi nella vita di chi racconti ed è proprio questo il momento più bello.
Saliamo ancora e stavolta, l’argilla si mescola visibilmente al calcare. Cerco nel terreno come un cane da tartufo e ringrazio la loro disponibilità perché mi portano a visitare vari vigneti, pur di aiutarmi a comprendere meglio le differenze di questi suoli con il resto del Cilento.
Le ore passano, ma non il piacere di parlare con loro, perché oltre ad essere molto simpatici e socievoli, ho apprezzato principalmente una cosa:mi hanno parlato per tutto il tempo della biodiversità da tutelare e non della chimica da utilizzare.
Li saluto e ci diamo appuntamento alla prossima degustazione!

Azienda Agricola Cinzia Maucione ad Aquara

Era da tempo che ci volevo venire è stato già detto? Eh sì, sembra fatto apposta, ma avevo già bevuto i vini di Cinzia, prima di conoscerla, e l’avevo pure incontrata all’Aperitivo Sociale organizzato da Gabriela Bellissimo sulle donne che valorizzano il Cilento.
Sia dopo aver bevuto il suo vino, sia dopo averla incontrata, le avevo promesso che sarei passato in azienda e poi…e poi il maledetto tempo che sembra sempre sfuggirci di mano.
L’importante ora è essere qui: appena varco la soglia di casa mi sembra di entrare nel paese dei balocchi: alzo gli occhi e vedo pancette tese, salsicce, soppressate, capicolli, insomma, la cuccagna!

Mi accoglie Franco, il marito, e mi porta con lui vicino all’affettatrice, credete possa esistere un’accoglienza migliore di questa? Un uomo travolgente, se dici di no per lui è sì, se dici di non volerne più ti riempie di nuovo il piatto e anche il calice; e, allora, lo guardi con l’aria di chi si trova di fronte una persona dalla rara, rarissima qualità: farti sentire subito a casa. Cinzia e Franco la definirei la coppia del lavoro e del sorriso, mentre Franco mi accompagna nei vigneti, Cinzia resta in cantina a imbottigliare, salvo poi scambiarsi di ruolo, con Franco che si allontana, mentre Cinzia, al mio ritorno dai vigneti, mi conduce a degustare.
Sono intercambiabili e credo anche inseparabili!
Vederli insieme è un piacere, perché sono felici e lo trasmettono, complice sicuramente anche la scelta delle figlie di voler restare in azienda, ad Aquara, e si stanno specializzando nel commerciale, al fine di posizionare sempre meglio i prodotti sul mercato.
I vigneti sono spettacolari, aperti a tutta valle, scoscesi, argillosi, “faticati”, ma hanno un’apertura di cielo davvero straordinaria. E poi l’aria, credetemi, l’aria è davvero invidiabile; se respiri più forte senti il naso “friccicare” e siamo quasi al tramonto, dove altrove tutte le “polveri sottili” raggiungono il massimo livello.
Venite a parlarmi di qualità della vita! Venite! Venite a dirmi che qui non c’è futuro e, invece, le figlie di Cinzia e Franco stanno dimostrando che il futuro c’è e sta qui, nel loro paese, dove non troveranno il centro commerciale a due passi, ma dove potranno vivere una vita “all’aria aperta” e non “all’aria sporca”.

Inizio a degustare il “Chjanu Majuri”, non solo perché è stato il vino che ho bevuto prima che li conoscessi, ma perché nel nome del vino è contenuto anche il mio e già per questo mi sta simpatico!
Un blend di Barbera, Sangiovese e Merlot, un vino dal sorso pieno e genuino, opulento e fruttato, così come la maggior parte dei loro vini degustati. Non vengono aggiunti solfiti, il vigneto viene condotto in maniera davvero certosina e naturale, con il risultato nel calice di un impatto fortemente territoriale e piacevolmente vinoso.
Caratteristiche che si ritrovano sia nel “Perato”, da uve Barbera in purezza, sia nel “Cierni Vjento”, da uve Aglianico. Assaggiando quest’ultimo ho potuto avvertire una struttura ancora maggiore, con tannini importanti, ma con una buona spalla acida che si sforza di bilanciare i 16 gradi di alcol. Dico sedici!
“Franco, ma non credi che questi siano vini che fanno fatica a stare sul mercato?”
“Sono i vini miei. Così me li dà la terra e io non li cambio!”

E che gli vuoi rispondere? A me viene solo di abbracciarlo, ma mi limito a una pacca sulla spalla e ad una bella risata.
Avremmo finito, ma con Franco e Cinzia mica te ne puoi andare così? “E il moscato non lo assaggi?”
Eh, giustamente, non abbiamo bevuto quasi nulla e allora è giusto assaggiare e con piacere noto che il loro “Filtrato dolce di Aquara” è notevolmente migliorato rispetto a una volta che mi era capitato di assaggiarlo mesi prima. Lo dico e Cinzia mi conferma che avevano apportato delle modifiche per migliorarne acidità e sorso e questa cosa mi conforta molto, perché significa che ci si può ancora confrontare.

La sera è vicina, il tramonto da qui è davvero spettacolare, le luci e i colori non mi sembrano reali e questo squarcio di cielo l’ho voluto immortalare, affinché mi crediate quando vi dico che… “è n’atu munno”. Ne ho conferma anche prima di andar via, incontrando la figlia che si è appena sposata e ha partorito, la quale mi racconta che il nonno, saputa la notizia, si è avviato per tempo e ha preparato, con le proprie mani, decine e decine di cesti di paglia come bomboniera.
Cinzia e Franco, poi, hanno provveduto a riempirli con i loro buoni prodotti della terra.
Cos’è questo? Per me, lo ripeto, qualora non fosse chiaro: “è n’atu munno!!!”

Secondo giorno

Azienda Agricola Chiara Morra a Castel San Lorenzo

Qui non ci dovevo venire, vi sembrerà strano, ma è proprio così. L’azienda mi è stata segnalata da Ciro Macellaro e mai segnalazione fu più adatta. Perché? Perché ci sono momenti nella vita in cui le cose devono accadere e io ho avuto modo di conoscere una signora di settant’anni, umile e minuta, che con tanta fatica e altrettanta dignità porta avanti la sua azienda.
Siamo a Castel San Lorenzo e forse ai più giovani questo nome risulterà nuovo, eppure, fino a qualche decennio fa questa terra trasudava vino. Vi basta sapere che l’uso del termine Lambiccato è riservato solo ed esclusivamente alla DOC Castel San Lorenzo? Ecco. Questa ve la dice lunga su quanto questa zona di produzione fosse tenuta in considerazione. E poi che è successo? Semplicemente che una delle più grandi cantine sociali, la “Val Calore”, nata addirittura nel 1960, d’un tratto chiude i suoi battenti e molti vignaioli contadini si ritrovano le uve invendute e svalutate.
Chiara Morra non ci sta e nel 2015 decide di etichettare, contro lo scetticismo di molti, e anno dopo anno vinifica, vende e colleziona premi. La fatica c’è, perché in vigna ci sta lei, qualche bracciante del luogo e, quando può, suo figlio. Mi accoglie proprio davanti a un’immensa area verde, che fino a qualche anno fa era teatro della più grande festa del lambiccato, organizzata da lei agli inizi di agosto. Comincia a raccontarmi queste cose, io la vedo piccola e non mi capacito da dove prenda tutte queste forze per andare avanti, ora che la viticoltura lì è cambiata e che di certo scoraggia i piccoli.

Chiara conduce cinque ettari, suddivisi tra un ettaro totale di sangiovese, merlot e cabernet, un ettaro di moscato bianco, mezzo ettaro di barbera e la restante parte tra aglianico, aglianicone, trebbiano e malvasia. Portare avanti tutto questo non è facile, nella vita è una lotta e in vigna una lotta integrata che le consente di portare nel calice vini dalla forte connotazione territoriale.
Piacevoli e armonici i suoi “Rachía”, che sarebbe l’anagramma di Chiara, sia il bianco ottenuto da uve Trebbiano e Malvasia, sia il rosso da barbera e Sangiovese. Vini immediati, di pronta beva, dal grado alcolico contenuto e dall’abbinamento leggiadro. Altra storia l’Aglianicone (che ho avuto modo di degustare in un momento successivo alla visita), dove le viti impiantante nel 2015 stanno già dando buoni frutti e belle soddisfazioni. L’asticella sale ancora con il suo Lambiccato, che tratta come un figlio e ne parla come una creatura che abbisogna di cure e attenzioni, ma che la ricambia con un moscato che qui si esprime al meglio e che i tanti anni di esperienza fanno sì che si riesca a raggiungere davvero un risultato importante.
Iniziamo a salutarci, ma si ricorda di non avermi fatto assaggiare il passito. Le dico che ritornerò volentieri, ma lei insiste e, credetemi, menomale che l’ha fatto: difficilmente credo di aver assaggiato un passito così buono. Senza dubbio il miglior passito assaggiato negli ultimi anni (anche in relazione al rapporto qualità-prezzo, parliamo, infatti, di un prodotto che esce intorno ai 15 euro): colore brillante, sorso lungo, pieno, fresco, nonostante sia una 2018. Dico sempre 2018. Davvero assurdo! Andatela a trovare e compratene una cassa per poi dimenticarla; apritene una ogni anno, perché di vita ne ha ancora parecchia avanti.

Mi saluta, ma prima mi porta a vedere il Calore.
Sì, perché davanti ai suoi vigneti scorre il fiume Calore, pochi passi e vi ritroverete sulla sua riva (se non è in secca). Immaginate questa scena: davanti a voi il fiume, alle vostre spalle i vigneti, sulle vostre teste l’ombra dei platani e dei tigli, in una mano un calice di passito e l’altra mano che stringe quella della vostra metà.
Io ve l’ho detto: “è n’atu munno!”

So che non è commerciale, che ovviamente il nome “Cilento” ha più appeal e che è giustissimo investire su quella, ma lasciate che un giovane adulto, vecchio dentro, che vorrebbe vedere valorizzato ogni angolo di questa regione, esprima un desiderio: una denominazione “Alburni”, affinché l’argilla, il calcare e le “fatiche” di chi ci ha preceduto restino lì per sempre, come le stalattiti delle grotte di Castelcivita, o, molto più semplicemente, come le mani rugose di chi ha zappato questa terra meglio dei “titani”.

Yuri Buono
Riproduzione Riservata


Premio “Aniello De Vita”: il successo della prima edizione e quel Cilento fatto di arte e memoria…

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Chi è stato Aniello De Vita? Semplicemente “un medico per vivere e un cantautore per non morire…”
Sì, perché le passioni aiutano a vivere meglio e consentono di alleggerire il peso delle fatiche quotidiane.

Il Primo Premio intitolato ad Aniello De Vita

Cantore della profonda anima del Cilento, nacque il 6 gennaio del 1941 a Moio della Civitella e la settimana scorsa, presso il Teatro “De Berardinis” di Vallo della Lucania, si è svolta la prima edizione del Premio canoro a lui dedicato.
La kermesse, nata da un’idea di Lillo de Marco e prodotta dal Cilento Music Festival, ha visto la presenza del Maestro Angelo Loia non solo in qualità di direttore artistico ma anche di co-conduttore, in compagnia della giornalista Grazia Serra.
La giuria tecnica è stata affidata a Michele Pecora, Alessandro D’Alessandro e Cristian Gallana mentre la giuria della critica, a cui ho preso parte, è stata composta da ventotto componenti, scelti tra giornalisti e storici.

I vincitori delle varie categorie:

I vincitori sono stati:
– per la categoria Cover, Anna Maria Marino, in arte Nama, con “Tonada de luna llena”;
– per la categoria Inediti, Leoluca Inverso con “Talent Shock”;
– il premio della critica è andato a Monica Rispoli con “Guarda che luna”;
– il premio promosso da Rusty Records è stato assegnato al gruppo I Dolori del Giovane Walter con “Truman Show”;
– Primo Premio Assoluto “Nuovo Imaie” al gruppo musicale The Rare Port (composto da Pantaleo Rizzo e Roberto Pinto) con “Estrella en el Mar”, che è consistito in un contributo di novemila euro per la realizzazione di almeno sei concerti dal vivo.

Un evento patrocinato non solo dal Ministero della Cultura

La prima edizione del Premio “Aniello De Vita” è stata patrocinata, grazie ai Programmi Operativi Complementari Europei relativi al progetto “Dialoghi Mediterranei”, dal Ministero della Cultura, dalla Regione Campania, dalla Provincia di Salerno, dall’ Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, dal Comune di Centola, dal Comune di Vallo della Lucania, dal Comune di Moio della Civitella, dal Comune di Ceraso, dal Comune di Cannalonga e dal Comune di Novi Velia.

Scegliere è stato difficile e non lo dico per piaggeria, ma solo perché il livello degli artisti è stato davvero molto elevato. Onore e merito a loro, al direttore artistico Angelo Loia per averli selezionati e agli organizzatori che sono riusciti a coniugare tradizione e modernità in una cornice di sobria eleganza, regalando una serata di piacevole serenità e dall’elevato contenuto artistico.

L’omaggio al cantore del Cilento

…e proprio il 6 gennaio ricorrerà il compleanno di Aniello De Vita… gli possano giungere fin lassù i nostri auguri e il ringraziamento per aver fatto conoscere al mondo un Cilento fatto di arte e fatica, laborioso e tradizionale, raffinato e bucolico…

...Cussì è la vita si nge criri cresce,
cussì è la vita si nge criri è chianta ca nun more,
si tene bbona rareca e l’arracqui co l’amore…

Yuri Buono
Riproduzione Riservata

Tenuta Melofioccolo: un’oasi di pace a due passi dal rumore

Immaginatevi per un attimo nel traffico di Napoli. Smog, rumori, caos, sirene; magari vi trovate in un ingorgo a Via Manzoni e decidete di prendere una stradina secondaria per uscire dalla confusione.

Percorrete cinquanta metri e davanti a voi si palesa una scritta: “Tenuta Melofioccolo”. Tenuta? Qui? In questo trambusto? Tenuta di che? Ecco, provate a varcare quel cancello e vi sembrerà di vivere una favola urbana.

Orto, fattoria didattica e oasi di pace

Non è possibile. Non si sente più nulla. Solo un continuo cinguettio; i rumori sono solo un ricordo da dimenticare, lo sguardo si perde nell’infinita bellezza che regalano la vista del mare e del Vesuvio, del verde e degli animali da fattoria, degli orti e dei bambini che giungono qui e scoprono che oltre agli smartphone esiste un mondo reale, fatto di terra per sporcarsi e di aria per ripulirsi.

Incontro un “contadino” con la barba, chiacchiero con lui, indossa ‘a cuppulella e mi racconta ogni centimetro che percorriamo insieme. Vuole farmi apprezzare il fatto che coltiva senza l’uso di pesticidi, ma l’ho notato subito, mi è bastato dare un occhio alla quantità di coccinelle e di erbe spontanee che crescono nei campi, proprio accanto agli ortaggi che maturano lentamente al sole di Posillipo.

La genuinità di un luogo sereno

Ho conosciuto Fernanda ad un corso sul vino e mi ha parlato di questa sua realtà, di questo luogo incantato e incantevole dove i bambini possono trovare vita e i genitori possono acquistare prodotti genuini. E poi c’è Sasà, il fratello di Valentina, una mia amica sommelier. Lei ci teneva tanto a farmelo conoscere e ha fatto bene, perché ho mangiato l’uovo a “sciusciello” insieme a lui e ho bevuto un buon bicchiere del suo vino rosso genuino.
Chi arriva qui può comprendere davvero quanto sia vera la frase di Ermanno Olmi, regista di Terra Madre: «E noi cittadini metropolitani, che viviamo inscatolati nelle nostre città, senza più i colori e i profumi delle stagioni forse, in un giorno molto prossimo, se ci capiterà di passare accanto a un orto dove un nonno e una piccola bimba colgono i frutti maturi, allora potremo ancora riconoscere la vera casa dell’uomo».

Tenuta Melofioccolo

Via del Marzano, 22

Napoli

Yuri Buono
Riproduzione Riservata

La scena finale del documentario “Terra Madre”, dove poter vedere “il nonno e la piccola bimba”…

I padellini di Nino Pannella e Simone Profeta

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La leggerezza!
Se dovessi trovare un minimo comune denominatore della presentazione alla stampa dei nuovi padellini, organizzata da Laura Gambacorta presso la pizzeria di Acerra gestita da Nino, sicuramente sarebbe questo.
Sì, perché quando ti viene servito un trancio con un topping a prima vista impegnativo e, invece, sollevandolo ti accorgi della sua consistenza a dir poco eterea, allora vuol dire che non stiamo parlando di pizza, ma di nuvole.

I protagonisti

L’abbinata è quella vincente: da un lato Nino Pannella, pizzaiolo che a ventotto anni vanta già quindici anni di esperienza e il recente ingresso nella guida “Pizzerie d’Italia” del Gambero Rosso, direttamente con i due spicchi; dall’altro Simone Profeta, trentaquattro anni festeggiati con noi proprio martedì sera, chef executive de “La Locanda del Profeta” di Napoli, dotato di tecnica sopraffina e di notevoli competenze sulle moderne attrezzature da cucina, complice anche la sua consulenza per il Gruppo Rational.

I padellini

Da questo binomio poteva nascere soltanto qualcosa di unico come “la carta dei padellini”. Il concetto iniziale è quello di una pizza, ma il risultato finale è tutto giocato sul “crunch” e sullo studio certosino di un impasto che riesce a fondere alveoli e gusto. A rendere ancor più avvincente la sfida e ancor più importante il risultato, è l’utilizzo di farine poco raffinate, con un largo uso del tipo uno, e dei topping sapientemente studiati per trasmettere passione, competenza e…dipendenza!

La mitologia greca

Noi siamo greci e buona parte della nostra cucina prende forma da lì; proprio per questo ad ogni padellino è stata abbinata una mitologia greca. Si è partiti dal dio del mare Poseidone con le alici del Cantabrico, per proseguire con la dea della caccia Artemide abbinata a una tartare di manzo e concludendo con il dio dell’amore Eros e una squisita mousse al gianduia. E proprio su quest’ultimo devo spendere qualche parola in più, perché se si è trattato di abbinamenti di certo particolari ed equilibrati, con punte deliziose come nel caso della senape di Dijon e del formaggio Comté, il padellino “dolce” è stato qualcosa di “altro”. Dimentichiamoci il concetto di pizza a cui siamo abituati; qui stiamo parlando di un leggerissimo impasto al cacao e di un topping, impreziosito da varie consistenze di lamponi, che risulta esageratamente gustoso, senza diventare mai stucchevole.
Particolare cura è stata riservata anche ai vini serviti in abbinamento ai padellini e selezionati da Inwine, come il Fiano di Avellino Docg 2019 Vigne Guadagno, il “Mille880” Falerno del Massico Rosso Doc 2017 Bianchini-Rossetti, l’Elixir Falernum e il passito di Fulvio Cautiero, “Oro Venti”.

L’offerta gastronomica

I padellini proposti saranno sei e caratterizzeranno il nuovo percorso di degustazione disponibile solo nei due tavoli speciali con vista sui forni. Nel nuovo menu trovano spazio anche dei padellini per vegetariani tra cui quello con carciofi crunch, tomme de Napoleon e gel di carota. 

Penso sia giusto concludere questo racconto così come l’ho iniziato: con la leggerezza; perché se da un lato gli impasti hanno evidenziato questa caratteristica di fondo, dall’altro la convivialità dei partecipanti ha reso davvero “leggera” una serata che rientrerà, certamente, tra quelle da ricordare.

Pizzeria da Nino Pannella
Via Yasser Arafat, 64
Acerra (Na)
Tel 081 19551304
http://www.pizzeriadanino.it
Aperto tutti i giorni a pranzo e a cena, tranne il martedì. Domenica solo cena.

Yuri Buono
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Il cibo ci parla, ma noi sappiamo ascoltarlo?

Ascoltare è qualcosa di diverso dal sentire. Quando parliamo a qualcuno ma ci accorgiamo che non ci sta prestando la sua attenzione, chiediamo se ci sta ascoltando o soltanto sentendo. Ed è esattamente ciò che facciamo con il cibo. Non lo ascoltiamo. Lui cerca di fornirci informazioni, gusto, nutrienti, ma noi a stento lo sentiamo, presi, come siamo, dalla nostra routine quotidiana.

Il cibo come alleato

Eppure, se solo riuscissimo a dare il giusto valore al cibo, saremmo artefici di cambiamenti epocali: dalla salute all’ambiente, dal rispetto degli animali al recupero di antiche tradizioni ormai desuete.

Si tratta di comprendere, una volta per tutte, di dedicare un po’ di tempo alla spesa, allo studio, alla ricerca, ma, principalmente, al recupero dell’ordinario, alla tutela della nostra salute, al sovvertire la scala delle priorità che un sistema malato ha impostato al contrario.

“Il cibo ci parla” è anche il titolo di un libro scritto da Roberto Rubino – che per oltre trent’anni ha diretto il CREA (il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’economia) di Bella, in provincia di Potenza – e che oggi divulga l’importanza della correlazione tra alimentazione animale e qualità del prodotto finale. È stato fondatore dell’ANFOSC (Associazione Nazionale Formaggi sotto il Cielo) che promuove l’importanza del pascolo e ideatore del MEtodo NObile, legato sia a un concetto di nobiltà della qualità dei prodotti e della filiera, sia ad un intervento ME.NO invasivo in tutte le fasi della produzione.

Come ascoltare il cibo

Una giornata come quella che si è svolta ieri a Palinuro, presso l’hotel Santa Caterina, (incastonato in un luogo dotato di incantevole bellezza che riporta alla mia mente l’ adolescenza vissuta qui, grazie a delle vacanze indimenticabili), aiutano a comprendere davvero “il linguaggio” del cibo. Paragonare lo stesso alimento, ma prodotto in tre modi diversi, aiuta davvero a capire l’importanza della qualità e le conseguenze sulla nostra salute. Ed è così che una patata dalle rese alte non avrà mai lo stesso sapore di una che sarà stata prodotta con rese più basse. Differenza che sarà altrettanto visibile paragonando la carne di vacche tenute al pascolo con un’altra ottenuta da animali chiusi in stalla, così come i formaggi ottenuti da vacche che avranno mangiato erba e quelle che saranno state alimentate solo con mangimi, oppure paragonando il sapore ricco e pieno di uova ottenute da galline tenute libere rispetto a quelle di animali allevati in batteria.

Non solo gusto, ma anche colore

Il più delle volte queste differenze sono state macroscopiche, altre volte meno, ma una cosa è stata sempre molto visibile: la differenza di colore. Esso ci dice sempre già qualcosa, anche senza assaggiare, e ci racconta di polifenoli e di antiossidanti che lavorano per difendere la materia prima e che, lasciati liberi di agire, col tempo, regalano sapori davvero unici.

E il prezzo?

L’assurdità di tutto questo è proprio il fatto che la forbice del prezzo si è assottigliata tantissimo. Oggi, nella grande distribuzione, arrivano prodotti a prezzi simili, per non dire uguali, a quelli che potremmo pagare per avere un prodotto più artigianale e genuino. Bisognerebbe imparare a cercare, ad informarsi, a leggere le etichette con attenzione ma, più che altro, a comprendere che il cibo ci parla e noi non possiamo continuare a lasciarlo inascoltato.

Immaginate una buona pasta prodotta con grani sani, una patata coltivata con basse rese, un formaggio prodotto da vacche al pascolo, il più delle volte lo troverete allo stesso prezzo di un prodotto “da scaffale”, o se ci sarà una differenza sarà ampiamente compensata dal fatto che di un cibo genuino possiamo anche mangiarne meno, proprio perché sarà ricco di nutrienti. Sono loro che servono al nostro organismo, non di certo la quantità senza qualità. E ricordatevi sempre che la qualità non è un concetto filosofico, ma un concetto empirico e misurabile.

Yuri Buono

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“Terrazza Ramè” a Napoli: skyline di gusto ed eleganza

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Inaugurazione e presentazione alla stampa di “Terrazza Ramè”, il ristorante gourmet del Gold Tower Lifestyle Hotel.

La struttura nasce nel 2019, dall’idea di un imprenditore napoletano, Carlo Pugliese che trasforma un vecchio complesso industriale in un’innovativa struttura alberghiera a quattro stelle lusso.

L’hotel

Il Gold Tower Hotel vanta un lounge bar, un centro benessere di mille metri quadrati, una palestra, un centro congressi che può ospitare fino a 170 persone, una zona esterna per coffee break, un giardino, una terrazza panoramica per eventi e ben due ristoranti. Uno è destinato ad una cucina tradizionale e prende il nome di “Lapillo”; per la preparazione dei piatti viene utilizzato l’orto presente in struttura denominato “Vesuvius Garden” per un’idea di cucina a km zero; l’altro, invece, inaugurato proprio per la presentazione ai giornalisti, è destinato ad offrire un’esperienza diversa, basata su uno stile maggiormente gourmet. Sapientemente coperta con elementi strutturali di ultima generazione, la terrazza saprà accogliervi, grazie a sistemi di condizionamento di ultima generazione, sia in inverno che in estate. Sarà possibile anche godersi il sole delle giornate migliori con una vista che spazia dal Vesuvio all’isola di Capri, dal moderno Centro Direzionale allo storico Castel Sant’Elmo.

Il racconto della degustazione

La degustazione è stata introdotta dal giornalista Giuseppe Giorgio e da Marco Zuppetta, direttore di “Terrazza Ramé”.Molto gradito anche il contributo dello chef Giancarlo Lo Giudice che ha voluto introdurre personalmente tutti i piatti preparati per l’occasione.

Notevole attenzione è stata riservata alla materia prima e alla mise en place, senza forzature inutili, ma conservando leggerezza ed eleganza. Molto particolare l’entrée che ha visto la preparazione di un mini panino cotto al vapore con ragù di polpo, mentre il pacchero al ragù di manzo con sifonata di provola e carota affumicata è stato davvero concepito alla perfezione, sia per la combinazione dei vari ingredienti che per l’esecuzione.

Non è mancata l’innovazione con il risotto caprese e il maialino allo scampo, il tutto impreziosito da un servizio garbato e professionale, sia del personale di sala, che del sommelier.

Cinque i vini in abbinamento: Franciacorta – Bellavista; “Vigna Cicogna” Greco di Tufo – Benito Ferrara; “Dimonios” Cannonau Riserva – Sella e Mosca; Giuseppe Tizzano Limited Edition; Picolit – La Tunella.

Il percorso di vita umana e professionale dello chef Giancarlo Lo Giudice unisce davvero “il Regno”; infatti, essendo siciliano di nascita ma ischitano di adozione tiene molto ad arricchire i suoi piatti con continui rimandi a questa unicità territoriale e culinaria.

Dal 2022 è Executive Chef dei due ristoranti dell’hotel e combina in modo sinergico tradizione e sperimentazione. La scelta della proprietà è di certo ambiziosa, ma è proprio questa l’imprenditoria che serve a Napoli: costruire, scommettere e creare opportunità di sviluppo proprio nelle aree più svantaggiate, così da iniziare un concreto percorso di emulazione verso l’alto.

Terrazza Ramé si trova all’ultimo piano del Gold Tower Lifestyle Hotel, in Via Brecce S.Erasmo 185 e assicura il servizio tutti i giorni, sia a pranzo che e a cena. L’offerta è rivolta principalmente ai residenti, a coloro che cercano un posto in città dove poter vivere un’esperienza gustativa di classe, in un ambiente sereno e reso unico da un importantissimo dettaglio: skyline sulla città davvero da…”capogiro”.

Yuri Buono
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I 33 d’Italia s’incontrano da Alois

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«Dica 33» è stato da sempre il metodo utilizzato per controllare il nostro stato di salute.
Ed è così che, dicendo trentatré, quest’angolo di bellezza casertana ha dimostrato davvero di essere in ottima forma.

Chi sono “i 33 d’Italia”

I 33 d’Italia” è un evento itinerante che ogni anno vede riunirsi 33 cantine (e 33 amici) per far conoscere l’Italia del vino in giro per la penisola.

Quest’anno è toccato alle Cantine Alois ospitare a Pontelatone, alle pendici dei Monti Caiatini, questa bella e interessante manifestazione e, diciamolo, è andata alla grande.

L’ingranaggio ha funzionato perfettamente, sia perché tutto si è svolto nella loro splendida struttura ottocentesca – parte di ciò che un tempo fu una riserva di caccia borbonica – con un servizio attento e professionale curato dall’ AIS Sommelier Caserta, sia perché gli show cooking e le degustazioni hanno visto la presenza dei migliori chef e produttori del territorio.

Non è mancato il tocco fine, garbato e delicato di Roberto Martino, già chef stellato del ristorante “Il Vairo del Volturno” di Vairano Patenora. Assaggiare anche solo una sua piccola preparazione equivale a riscoprire le tradizioni di quest’angolo di terra campana e i sapori più veri di un pezzo di cuore casertano. Così è stato anche stavolta: nelle sue creazioni, l’equilibrio la fa sempre da padrone, e lo si è notato dall’incontro tra la cipolla alifana e il lupino gigante di Vairano, ma anche con l’arte sapiente di “ingentilire” i tagli di carne meno nobili.

Una delle creazioni dello chef Roberto Martino

I vini cru di Alois

È stata anche l’occasione per provare i tre “cru” aziendali, ottenuti dopo dieci anni di sperimentazioni dai vigneti più vocati posti a 350 metri s.l.m., ai piedi del Monte Friento, in località Audelino e impiantati alla fine degli anni novanta.

Si tratta di “Morrone” (pallagrello bianco), “Murella” (pallagrello nero) e “Trebulanum” Riserva (casavecchia). Tre cru aziendali che negli anni sono riusciti a dare vita ad uve con ph al di sotto di 3,20.

Da questa idea è nato il progetto di zonazione dell’Alta Campania, che si concluderà quest’anno, con la pubblicazione di un Atlante, comprendente aspetti storici e geologici e con un focus su ogni azienda del territorio analizzato.

Fare rete: il progetto Pizza Hub partito da Franco Pepe

È il concetto di fare rete che qui riesce davvero bene e lo testimonia anche il progetto “Pizza Hub”, partito dalla pizza di Franco Pepe ma che mette in rete trenta operatori del territorio, attraverso un attento percorso di formazione.

La collaborazione ha portato alla creazione di una guida digitale, creata da Pizza Hub – Viatoribus, dove poter trovare un “itinerarioenogastronomico che valorizza in modo sinergico il territorio e le sue eccellenze.

E, allora, diciamo trentatré con l’emozionante aggiunta di tutta la biodiversità della nostra terra.

Yuri Buono

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Un pranzo cilentano immerso nella poesia

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Ciò che a prima vista può sembrare un quadro non è altro che un’opera d’arte a quattro mani. Quelle divine hanno creato lo sfondo fatto di diversi gradienti di verde e di acqua cristallina, mentre quelle umane hanno trasformato sapientemente acqua e farina.

Se quello che mi accingo a raccontarvi fosse stato un semplice pranzo, magari anche buonissimo, non lo avrei scritto sul mio blog, dove racconto di “emozioni”. Ecco, l’emozione. Quella che si può provare solo quando un pranzo finisce di essere tale e diventa esperienza irripetibile; non solo per la qualità del cibo, ma per il contesto, per i dialoghi, per le sfumature e, soprattutto, per i silenzi.

Sono silenzi che si riempiono di profumi; silenzi che raccontano di un luogo meraviglioso come Baia Trentova, ad Agropoli, che da qui può essere ammirata in tutta la sua commovente bellezza.

La coppia di amici che ha voluto condividere delle ore piacevoli è una coppia che crea; lui poesie, racconti e riflessioni; lei, invece, opere d’arte con i colori, con la farina e con i pastori. Entro in punta di piedi, com’è giusto che sia, ma più che altro ci entro così perché tutto ti parla: un quadro, un libro, un panorama, un forno a legna, un decoro, un piatto…il camino.

È lì che scorgo qualcosa di insolito. Accanto alla cenere c’è una pentola; mi “affaccio” e vedo che dentro c’è del sugo di pomodoro con la carne, “atto a divenire” ragù. È una cottura lenta, lentissima, fatta di piccoli sbuffi e che va avanti con il calore della brace posta al suo fianco.

Non so a voi, ma a me emoziona. L’attesa di poter gustare una cosa buona; il “portare avanti” tradizioni che “portano indietro”, o meglio, che portano al Vero. I profumi sono diversi, sanno di buono, di genuino e, allora, decido di dirigermi in cucina, dove un’altra pentola sta cuocendo dei ceci che il tempo e la cura stanno trasformando in crema.

Accanto c’è una spianatoia, localmente detta “scannaturu”; è lì che sta riposando la “pasta fatta in casa”. Le orecchiette serviranno per il ragù, mentre le lagane andranno ad impreziosire questa crema di ceci. Pensate, solo per un istante alla manualità, al ripetersi dei gesti: quello breve e deciso per ottenere le orecchiette, quello più lungo e cadenzato per le lagane.

Sono gesti che parlano in silenzio; sono lì, come a voler dire: «Sei importante». Mi sveglio presto per te, impasto per te, attendo per te…in altre parole, creo per te! Ahhh…quanto bene farebbe alle famiglie tornare ad impastare!!!

È quasi pronto! Fuori il sole di dicembre riscalda il cuore e l’anima. Esco per ammirare una bellezza davvero difficile da eguagliare e resto immobile, convinto del fatto che il futuro sarà davvero dei piccoli centri, dei luoghi ameni, del ritorno alla terra e all’umanità.

Sì, ho detto proprio umanità, perché tutto ciò che ti porta lontano da te stesso è dis-umano, dove il prefisso “dis” è fin troppo eloquente. Dice tutto. Se qualcosa è dis-umano, ti priva dell’umano; contraddice l’umano; è contrario all’umano; si oppone all’umano. È l’eterna lotta tra Caos ed Armonia.

Il futuro o è qui o non è! Il futuro deve tornare per forza all’essenziale. Hanno iniziato prima con l’inurbamento, spostando intere famiglie dalle campagne alla città, hanno proseguito con la conurbazione, fondendo i piccoli centri alle grandi città e hanno completato l’opera creando la società dei desideri che possono essere appagati, in qualunque momento, dai centri commerciali disseminati principalmente a ridosso dei centri minori e che fungono da collante con la città. Luci e luccichii di un mondo fatto di plastica e solfiti che ti promette lunga vita ma che, nel frattempo, ti cambia la vita, perché viviamo nel malessere credendolo benessere!

Il piatto è in tavola. Le riflessioni si placano. Si stappa una buona bottiglia di vino genuino e, finalmente, si gusta un piatto memorabile di “lagane e ceci”. Era da tempo che ci dicevamo di vederci a pranzo, un giorno, per assaggiare questa prelibatezza tutta fatta in casa, in Cilento, dove i ceci sono cultura. Ne prendo un altro “cuppino”, unità di misura che qui va molto”a sentimento” e conversiamo fino alla torta: un morbido pan di spagna impreziosito da quella crema che piace a me. Il gusto? Per me è il “come una volta” e sono convinto che non si potrebbe esprimere meglio.

Il pranzo procede con gli intermezzi poetici del mio amico cilentano, uomo buono e sensibile, che spesso mi ha declamato le sue poesie durante gli scambi di una partita a tennis e che ora è qui, nel suo regno, dove compone i suoi versi all’alba e non vede l’ora di farli ascoltare alla sua metà. Lo capisco benissimo, anche quest’articolo è stato scritto all’alba e di solito è il destino di tutti i componimenti che si scrivono col cuore.

Già lo immagino andare su e giù nell’attesa che si svegli la sua musa, non per ricevere consensi, ma perché non vede l’ora di esprimerle ciò che porta dentro. Cos’è l’amore? Questo. Riuscire a trasmettere ciò che si prova e ognuno lo fa a modo suo. Lui con i versi, lei con un dipinto o con le lagane.

Il tempo passa, è tempo di andare, ma non prima di essermi fermato un po’ davanti al presepe forgiato dalla “padrona di casa”. Sughero e pastori sono stati acquistati, ma i particolari sono suoi: la massaia che piega il bucato, il cassetto lasciato a metà, il merletto, i dettagli delle botteghe, il piennolo di pomodori. I respiri no, quelli non ci sono, ma il presepe ci abitua proprio a questo: riuscire a sentire quel Respiro che ci è stato donato, restando in silenzio davanti ad una mangiatoia.

Il sole sta tramontando e bisogna andar via, purtroppo. Il cielo assume il colore della Bellezza. Resto qualche secondo ad ammirarlo, convinto, più che mai, che “l’Onnipotente abbia fatto davvero grandi cose”. Spetta solo a noi scoprirle, conservarle e trasformarle in Amore.

Yuri Buono Riproduzione riservata

Le verdure e la carne della minestra maritata

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Non si resta legati alla tradizione perché “era meglio prima”. Si resta legati al passato perché in esso ritroviamo il sapere di chi ci ha preceduto e il sapore di una genuinità che, c’è poco da dire, abbiamo perso.

Ecco perché le verdure per la minestra maritata non si scelgono a caso, o a piacere; non si “arronzano” tanto “vene bbuon’ ‘o stesso”; non se ne mettono di meno e sapete perché? Perché erano quelle che si trovavano, e si trovano ancora, in qualsiasi nostro orto invernale.

Così si tutelano davvero la biodiversità e l’ambiente, vocaboli molto abusati in questi ultimi anni; così si rispetta la stagionalità e si difende anche la salute.

Torzella riccia, borragine, scarolella, bietolina, verza, cicorietta, minestra nera (‘o spigariello).

Sono queste le verdure da sempre utilizzate, perché da sempre coltivate, anche se abbiamo fatto di tutto per riuscire a perdere secoli di storia, dimenticando colpevolmente la torzella riccia, relegandole un posto dietro le quinte.

E come “maritare” queste verdure? Se volessimo mettere insieme la ricetta cinquecentesca di Del Tufo e quella ottocentesca di Cavalcanti, potremmo dire che sono immancabili le seguenti carni e i relativi tagli: mascariello (guanciale), orecchio di maiale, cotiche, tracchie, nnoglia, corazza di manzo e gallina.

Tutto ciò che si allontana da questo, tutto ciò che strizza l’occhio alle mode contemporanee, non solo ci allontana dalla ricetta originale, ma dalla storia dei nostri orti e dalle consuetudini di chi ci ha preceduto. Quegli avi che aspettavano un anno intero per raccogliere e macellare ciò che avevano cresciuto con le attenzioni più nobili, pur di ottenere un prodotto genuino.

Festival della Pastorizia 2022: un carico di genuinità, a Picinisco!

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Il Festival della Pastorizia 2022, per me, ha la genuinità di Elia: dodici anni, di Settefrati. Quando gli chiedo cosa vuole fare da grande, mi risponde «l’agricoltore e il pastore».

Elia munge a mano pecore e capre, cammina per i sentieri con fare esperto e mi confida che vorrebbe un pavone, solo che gliel’hanno promesso come regalo per quando compirà diciotto anni.

«E quindi devi aspettare altri sei anni per averlo?», gli chiedo pensando ai regali di diciotto anni che ricevono i ragazzi di città.
«Eh sì, vabbè passano presto», mi risponde, con quel suo fare quasi da saggio.

Ci cammino per un po’, lungo il sentiero che ci conduce sui passi del pastore, e le sue parole sono vere, genuine. Non si dispera, non si impunta, se gli hanno detto che glielo regaleranno a diciotto anni un motivo ci sarà. Lui per il momento vuole studiare e fare il pastore, vuole andare a scuola e fare il contadino. Il resto non gli interessa.

Ecco. Se dovessi portare a casa una cartolina del Festival della Pastorizia 2022 sceglierei sicuramente gli occhi di Elia. Sguardo pulito, educato e dignitoso. Vuole fare il pastore e gli riesce bene. La mattina, prima di partire con il gregge, l’ho visto mungere. Senza paura, con piglio deciso, si è messo lì e ha mostrato agli altri come si faceva.

Ovviamente, quasi nessuno è riuscito a ricavare una goccia di latte, ma lui, a dodici anni, ha fatto vedere come si cresce bene in ambienti genuini. Si cresce forti, sani e senza paure immotivate.

Dopo il momento della mungitura, ci siamo messi sui passi del pastore, dove insieme a centinaia di pecore e capre siamo partiti da Picinisco (Prati di Mezzo) e siamo arrivati al Monte Cavallo.

Un’intera a giornata per capire quanto sia importante, ancora oggi, il pascolo.

Durante le pause della passeggiata, il prof. Federico Infascelli e le professoresse Raffaella Tudisco e Piera Iommelli ci hanno spiegato le differenze tra il latte di animali tenuti in stalla e quelli che invece sono liberi di pascolare e di “scegliersi” il cibo, a seconda della necessità e delle stagioni.

È così che il latte resta qualcosa di vivo, perché porta con sé tutti i valori nutrizionali di un’alimentazione sana, variegata e libera.

Picinisco è bella! Già dal pomeriggio gli stand cominciano a popolarsi. La sera, poi, la piazza si riempie e diventa un rifiorir di concerti e di balli, perché senza questo spirito profondamente conviviale non ci sarebbe vera pastorizia.

Gli stand gastronomici li faccio davvero tutti; non potrei mai perdermi lo spezzatino del pastore, la cacio e pepe, gli arrosticini, la pecora alla brace e qualche buon vino della denominazione Atina DOC.

Dormo nel B&B di Loreto e l’indomani mattina l’aria è frizzantina e fresca. C’è anche il venticello e la sveglia non mi è data dal gallo, ma dal suono del campanaccio e dal muggito della vacca della vicina campagna.

Lo so, non è un mondo per tutti e per questo è un mondo destinato a salvarsi, proprio perché non sarà “invaso” dalle inutilità della città.
Fare il pastore significa non avere tempo da perdere sui social; avere una stalla e una campagna significa non avere giorni di festa, ma ciò presuppone che si cerca di trasformare in festa anche i giorni più semplici.
No. Non è un mondo per tutti, perché la genuinità ha un costo: eliminare il superfluo. Per farlo bisogna essere in grado di guardare il cielo, riuscire a vedere le stelle – perché non sono coperte da migliaia di luci – e godere di ciò che il cuore ha davvero bisogno.

Il Festival della Pastorizia 2022 ha il sorriso di Loreto Pacitti che si sveglia alle quattro, si dedica agli animali, all’agriturismo e la sera alla caciosteria in piazza, fino a tardi e poi l’indomani è già pronto di nuovo per dare forma non solo al pecorino di Picinisco DOP e al conciato di San Vittore, ma anche ai suoi sogni che sono gli stessi di un ragazzino, solo perché lui è felice di fare il pastore.

Il Festival della Pastorizia 2022 ha la cura del titolare de “La Locanda di Arturo”, osteria Slow Food di Picinisco, che a fine servizio si siede al bar per spiegarmi il suo modo di cuocere la carne e di come concepisce la sua ristorazione “senza fretta”.

Il Festival della Pastorizia 2022 ha la dolcezza della Crema di Berenice che dal 1946 fa un solo gusto di gelato. Sì, ve l’ho detto prima. Bisogna essere pronti a tornare al genuino: un solo gusto. Solo crema. Ottenuta da latte della Valle di Comino, zucchero e uova. Un solo gusto ma un’infinità di piacere, per quel sapore del buono di una volta, ormai dimenticato.

Il Festival della Pastorizia 2022 ha il sapore del latte di Bartolomucci che fino a quando non proverete non potrete mai dire di aver assaggiato veramente il latte. Pieno, gustoso, cremoso, denso, saporito, ricco di sentori.

Quanta bontà c’è in questo mondo…basterebbe solo tornare ad essere liberi per apprezzarla davvero…

Io ringrazio Dio per avermi fatto toccare da vicino il gusto della genuinità e spero di avervelo trasmesso!

Yuri Buono
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